Le nuvole sono gli unici animali
a vivere sul confine tra il visibile
e l’invisibile:
per questo feriscono i nostri occhi
e quelli di ogni essere che ha ricevuto
il dono inospitale dello sguardo.
Sono implacabili con la nostra vista.
La scavano, la costringono a conoscere
la distanza, a distillarla e trasformarla
in aspro liquore per dissetarsi.
Ci trascinano verso un orizzonte
che non chiediamo.
Quasi tutte le nuvole sono atee.
Sanno che abitano
un cielo senza nome,
la cui materia è l’oblio.
Si dedicano a registrare
ogni singola creatura
della terra
con un’inutile devozione.
Per ricordarmi di loro,
per salvarle da quella calligrafia sfavillante
che praticano lì, al di sopra del tempo.
E quasi tutte
hanno nostalgia della terra,
un tenue desiderio
come un filo sordo di pioggia.
Quando non ce la fanno più,
fanno cadere fulmini:
i loro maldestri tentativi,
insostenibili,
di gettare radici.
Segretamente
vorrebbero trasformarsi in alberi,
possedere quieti rami
e una voce nodosa per cantare.
O montagne, perché no,
case per l’eco
e la scomparsa.
Vorrebbero essere tante cose, le nuvole.
Cose che non vivano costrette
a ricordare col loro corpo tutto ciò che
vedono.